Sir Walter Scott ritratto da Sir Henry Raeburn |
Scott fu profondamente amato dai suoi primi lettori, i quali erano soliti definirlo 'The Magician of the North', Il Mago del Nord, conferendo elementi quasi sovrannaturali al suo presunto atto di 'invenzione' della Scozia come oggi la conosciamo.
Attraverso la poesia e i romanzi, Scott contribuì infatti alla genesi dell'immaginario scozzese, il quale ancora oggi vive nelle nostri menti, sebbene sempre meno lettori sembrano interessati al patrimonio letterario lasciatoci in custodia da uno dei più grandi autori che la Gran Bretagna abbia mai conosciuto.
Shortbread tins scozzesi, Outlander special edition |
I giardini di Abbotsford House, castello di Sir Walter Scott |
Tale visione è ben radicata in una storia che dura secoli e che data esattamente agosto 1871 quando, in occasione del centesimo anniversario della nascita di Scott, sul Blackwood's Edinburgh Magazine compariva un saggio composto come tributo e celebrazione dei traguardi raggiunti dallo scrittore in tutta la sua carriera.
"Cento anni fa non vi era un singolo scozzese la cui presenza fosse registrata in Scozia.
Neanche uno! Non vi erano geni delle montagne, né spargimenti di luce e colore lungo i
loro possenti pendii. Non vi era bardo né messaggero capace di raccontare la gloria
passata, annunciando con forza il grido delle ere passate; né vi era traccia del braciere
gentile e radioso ad illumare le menti dei cottage nelle Lowland... Nessuna emigrazione
fu in grado allora di svuotare quelle care colline e quelle erme vallate con la stessa
efficacia con cui l'immaginazione fu in grado di fare. Cento anni fa queste aspre distese
erano vuote e desolated—anzi, non esistevano affatto e vi era solamente qualche
passante che di tanto in tanto vagava, in cerca di più preziose mete."
L'autore di questo panegirico è una donna di nome Margaret Oliphant, la quale ritenne che se Scott non fosse mai esistito, allora l'esistenza della Scozia stessa sarebbe stata letteralmente inimmaginabile—un vuoto—per qualunque cittadino britannico.
L'importanza di tale affermazione sta nel fatto che Oliphant riconobbe per la prima volta che le nazioni non possono e non devono essere considerate semplici entità politica.
Queste sono infatti, per usare le parole di Benedict Anderson, "imagined communities", i cui membri sono legati tra loro dalla CONDIVISIONE: storie, leggende e miti tramandati di generazione in generazione e che hanno come protagonisti gli antenati dei loro diffusori.
La letteratura ricopre così un ruolo fondamentale nella realizzazione dell'informe insieme di quelle credenze popolari, valori e tradizioni che prendono il nome di identità nazionale.
Il romanzo - di cui si hanno prime tracce nell'Europa del XVIII secolo e che completò la propria strutturazione in quello successivo - fu decisivo nel processo di formazione di numerose identità nazionali, in quanto si presentava come una delle forme letterarie più accessibili ad un pubblico sempre meno elitario.
Oliphant riconobbe l'importanza del romanzo proprio in riferimento all'identità scozzese quando non solo ricorda che un secolo prima di lei non vi era stato nessun Walter Scott in Scozia, ma anche che...
..."Non vi erano romanzi; un secolo fa, la storia antica della Scozia non era altro che terreno per sterili polemiche—in balia delle mani di pochi fanatici di storia e delle ricerche di qualche antiquario—anziché la casa del vibrante e pittoresco passato da cui il mondo intero sarebbe stato più tardi rapito. Una regione trafitta da musica e colori sgargianti, viva tanto quanto quelle già conosciute, e di gran lunga più accattivante nella lucentezza del romanticismo passato piuttosto che nelle tinte spente del sobrio presente.
Agli occhi di Oliphant - di e molti altri lettori e scrittori dell'Ottocento - Scott risulta dunque essere veramente l'inventore della Scozia—o almeno di una versione di questa.
La grande invenzione di Scott
Walter Scott fece la sua prima apparizione nel mondo non come scrittore, bensì come antiquario.
Nel 1802 pubblicò "Minstrelsy of the Scottish Border ("L'arte dei menestrelli al confine scozzese"), una raccolta di ballate ritrovate e collezionate durante le sue uscite a cavallo lungo i confini, dove ricopriva il ruolo di vice sceriffo per Selkirk.
Scott presentò al pubblico la sua raccolta di successo di canzoni e ballate come una sorta di 'archivio di tradizioni', ma il suo ingenio creativo era già in opera per la composizione di opere originali.
Il meticoloso lavoro di scrittura rappresentava per Scott un processo lungo e faticoso in cui dal materiale 'crudo', la modifica di parole e di fraseggi, l'inserimento di nuove stanze e la correzione di rime e ritmi si andava a fondere con le versioni più antiche di scritti appartenenti alla tradizione scozzese, al tempo dimenticata.
Sebbene oggi un lavoro simile verrebbe considerato come un'alterazione perniciosa sia dell'autenticità dei suoi scritti sia della sacralità degli originali, è bene tenere a mente che composizioni come le ballate presentano una struttura malleabile di versi, dei quali nella storia esistono non a casa innumerevoli versioni.
Dunque potremmo dire che quella portata avanti da Scott non era altro che un'imitazione velocizzata di quel lento processo di trasmissione orale e scritta che ha da sempre interessato culture e tradizioni della popolazione mondiale.
Frontespizio all'opera |
Il successo di "The Minstrelsy" fu di ispirazione per il primo grande poema narrativo di Scott, un racconto seicentesco di rivalità di confine, interconnesso con le leggende dello stregone Michael Scott e il suo servo folletto Gilpin Horner.
Si tratta del poema "The Lay of the Last Minstrel" ("Il lamento dell'ultimo menestrello"), pubblicato nel 1805, il quale godette di un numero di vendite senza precedenti per un'opera di poesia e che per Scott significò celebrità subitanea.
Abbazia di Melrose |
"Il lamento dell'ultimo menestrello" fu sorprendentemente apprezzato in egual misura dai lettori di Scott e dai suoi critici, con rarissime eccezioni.
Era chiaro che Scott scriveva per intrattenere: cercò - con successo - di proporre ai suoi lettori una storia avvincente, in versi, anziché scavare nei meandri della psiche umana - come al tempo era invece impegnato a fare Samuel Taylor Coleridge - o riflettere sulle meraviglie dell'universo naturale - come William Wordsworth.
Così deplorò Thomas Carlyle alla morte di Scott che "in questo secolo, il nostro più grande uomo di lettere, colui che più di ogni altro tenne stretta a sé l'attenzione del pubblico, non aveva messaggio da conferirgli; non desiderava che esso si elevasse, si migliorasse, facesse questa o quest'altra cosa, se non semplicemente pagare per i libri che egli continuava a scrivere".
Tuttavia, sebbene critici come Carlyle non colsero una vera e propria morale nei lavori di Scott, i lettori se ne nutrivano e le sue opere arrivarono a superare in vendite persino le "Lyrical Ballads" ("Ballate liriche"), nate dalle fatiche congiunte di Wordsworth e Coleridge.
Fu solo quando Lord Byron prese in mano la penna per comporre, tra il 1812 e il 1818, i poemi narrativi dell'opera "Childe Harold's Pilgrimage"("Il pellegrinaggio di Childe Harold") che Scott vide le proprie vendite cominciare a calare. E fu proprio tale realtà che lo spinse a cimentarsi in una nuova forma letteraria che meglio si prestava al suo impulso narrativo: il romanzo.
Fu una scelta azzardata da parte di Scott. Mentre la poesia era da sempre stata considerata una grande arte, il romanzo, relativa novità sulla scena letteraria, era visto come poco più che 'spazzatura popolare', adatta solo a donne e bambini.
Non a caso Scott decise di pubblicare "Waverley", il suo primo romanzo, anonimamente, così da proteggere la propria reputazione letteraria e professionale.
Il romanzo, però riscosse successo e seguirono alla pubblicazione di "Waverley"(1814) altri otto romanzi storici, composti in soli cinque anni, ambientati nella Scozia di XVII e XVIII secolo.
Scott ai giorni nostri: il mito di Ivanhoe
Oggi è sempre più raro trovare Walter Scott tra gli autori, di ieri e di oggi, più letti e apprezzatti dal pubblico. Tuttavia, quello di "Ivanhoe" è un mito che sembra ancora non demordere al passare del tempo e al depositarsi di polvere.Pubblicato il 18 dicembre 1819, "Ivanhoe" ottiene subito un grande successo, anche se le recensioni sono solo parzialmente favorevoli. Non tutti i critici, infatti, apprezzano la qualità fantastica, a tratti meravigliosa, della narrazione, ribadita dal sottotitolo A Romance.Curiosa è la breve nota anonima del Monthly Magazine, che si riferisce al romanzo denominandolo Ivanhoe, o l'ebreo di York, con un esplicito riferimento al 'tema ebraico' così importante nell'opera. In ogni caso, "Ivanhoe" rappresenta un significativo distacco dagli scenari scozzesi che avevano reso famoso Walter Scott, soprattutto per la rievocazione degli anni Quaranta del Settecento, quando una parte consistente dei clan delle Highlands si era schierata dalla parte del pretendente alla corona, il principe Carlo Edoardo Stuart (ribellione del 1745), imbarcandosi in una disastrosa campagna militare contro la dinastia Hanover, conclusasi con la battaglia di Culloden (1746), che aveva sancito la fine di ogni speranza di indipendenza della nazione scozzese.Rimane la prospettiva 'scozzese', lo sguardo dall'esterno rivendicato dal narratore onnisciente nell'incipit dell'opera non senza una sfumatura ironica: il discendente di un popolo ricco di storia e di tradizioni, ormai sottoposto a un processo di integrazione nel sistema politico del Regno Unito, rivendica ora il suo diritto di raccontare le origini dell'Inghilterra, nata dallo scontro e dalla lenta fusione di Sassoni e Normanni. Il senso di distacco dalla materia narrata è accentuato dall'espediente del Manoscritto ritrovato e riadattato, che rinvia ad altre opere successive, certamente influenzate da Scott, come "I promessi sposi" di Manzoni e "La lettera scarlatta" di Hawthorne.
Affrontando la sua narrazione storica con il piglio del romancer, Scott non esita a ricorrere a una serie di semplificazioni e di stereotipi che vengono ribaditi dagli stessi personaggi di Ivanhoe: i Normanni sono guerrieri prepotenti e talvolta lussuriosi, pieni di disprezzo per i loro sudditi, che considerano rozzi e codardi, mentre i Sassoni, rigidamente legati agli antichi costumi degli antenati, vedono nei Normanni solo degli usurpatori stranieri, che occupano le loro terre manu militari. Astoricamente, a più di un secolo dalla battaglia di Hastings, Cedric, il padre di Wilfred Ivanhoe, progetta un matrimonio dinastico tra la figlioccia Rowena e il nobile Athelstane, in grado di restituire ai Sassoni la corona e di favorire la cacciata degli invasori. Tuttavia il narratore onnisciente, conservando una posizione lucida ed equilibrata - di chi non esita a guardare al passato con la consapevolezza di un presente ben vivo e operante - introduce il grande motivo della riconciliazione inevitabile, e mostra nello stesso tempo la complessità di un paesaggio storico che non si può ricondurre esclusivamente alle manovre dei potenti dell'uno e dell'altro campo. Così Gyorgy Lukacs, che, ne Il romanzo storico, fu tra gli estimatori di Ivanhoe, sottolinea che "Come ogni grande poeta popolare Walter Scott perviene a rappresentare il complesso della vita nazionale nei suoi complicati rapporti di reciproca dipendenza fra l' 'alto' e il 'basso'; in lui la tendenza molto spiccata verso la popolarità si manifesta in quanto nel 'basso' scorge la base materiale e la motivazione letteraria per la rappresentazione di ciò che avviene in 'alto' ". La contrapposizione tra Sassoni e Normanni, inoltre, non può che preannunciare quella tra Scozzesi e Inglesi, cosicché Ivanhoe ribadisce la necessità di superare contrasti e rivalità sterili. Il Regno Unito, che si avvia a diventare grande nazione coloniale e imperiale, non può che procedere, al suo interno, con una serie di operazioni di assimilazione etnica e di cooptazione sociale, anche se Scott era ostile alle proteste operaie, assai vive nel periodo della pubblicazione di Ivanhoe. Tuttavia, la vocazione fortemente monarchica e tory dello scrittore, che poggia nel romanzo sulla nostalgica rivisitazione del passato pre-industriale, non esclude un approccio problematico, l'apertura di varchi imprevisti nel tessuto ben poco organico degli eventi storici narrati
Rebecca e Brian de Bois Guilbert |
Assolutamente esplicita è la visione romantica dell'autore, che celebra un passato cavalleresco, in cui perfino i crudeli Normanni si comportano quasi sempre con valore e nel rispetto delle regole, come è nel caso del loro campione maggiore, il Templare Brian de Bois-Guilbert, un personaggio byroniano, trasgressivo ed esaltato, che vorrebbe fondare un Impero in Oriente portando con sé, come amante, l'ebrea Rebecca, destinata al rango di una nuova Cleopatra. Scott, che aveva compilato nel 1818 la voce "Cavalleria" per un'edizione dell'Enciclopedia Britannica, mette in bocca a Ivanhoe l'esaltazione di suoi ideali, che sembrano in realtà costituire il vero cemento ideologico della nuova Inghilterra unita, a condizione che nell'ambito della cavalleria comprendiamo anche la variante popolare rappresentata dagli infallibili arcieri di Robin Hood. Del resto, se il cavaliere più forte di tutti è Riccardo Cuor-di-Leone, altrettanto regale nella sua foresta appare, appunto, Robin Hood, circondato dai suoi leali fedeli e accompagnato dalle benedizioni di un frate manesco. E' pur vero che il richiamo ai princìpi della cavalleria messo in bocca a Ivanhoe viene denunciato in quanto prevaricazione virile da Rebecca e da altre figure femminili e che la vittoria finale di Ivanhoe acquista un sapore paradossale: Ivanhoe si presenta al giudizio di Dio chiesto da Rebecca, condannata al rogo come strega, in condizioni di salute così precarie che il suo avversario, Bois-Guilbert, esita a battersi con lui. Solo l'intervento divino (nel più puro spirito medievale), ovvero l'improvviso tracollo fisico dell'avversario (ricondotto a una motivazione medico-psicologica assai più vicina al fondamentale illuminismo scottiano), sancisce la vittoria del malandatissimo eroe. Si può capire il fastidio per l'edulcorata visione medievaleggiante che troviamo in Ivanhoe e assai di più negli imitatori ottocenteschi di Scott, espresso alla fine del secolo da Mark Twain, il quale si fece beffa del ciarpame scottiano, parodiandolo direttamente ne Uno Yankee alla corte di Re Artù.
La popolarità di Ivanhoe è continuata anche nel Novecento, allorquando l'opera di Scott è stata spesso trasformata in un romanzo per ragazzi, e ha raggiunto probabilmente il suo apice negli anni '50 del secolo scorso, grazie alla versione cinematografica di Richard Thorpe (Ivanhoe, 1952), che vede nel ruolo di protagonista un Robert Taylor perfetto spadaccino, e che si avvale soprattutto della recitazione di due notevoli attrici: una languorosa Elizabeth Taylor (Rebecca) e una più pacata Joan Fontaine (Rowena). Ma gli anni '50 sono anche il decennio della trilogia de Il signore degli anelli, e sebbene Tolkien non mostrasse un grande entusiasmo per Walter Scott, tuttavia, per certi aspetti, l'uso tolkieniano del romance avventuroso e guerriero, la creazione della Terra-di-Mezzo, l'elaborazione di un linguaggio epico arcaizzante e di notevoli spunti comici rinviano al Medioevo immaginato dallo scrittore scozzese.
E. Delacroix - Il rapimento di Rebecca |
Occorre intanto sottolineare che l'influsso di Shakespeare si nota anche nella mescolanza di tragico e di comico esaltata in Ivanhoe: se le cadenze della narrazione ribadiscono il tono epico-cavalleresco dell'intera vicenda, non si può dimenticare la dimensione bassa, popolaresca, del racconto, in cui hanno risalto le imprese del porcaio Gurth, del buffone Wamba, di frate Tuck (un eremita tutt'altro che ascetico). E uno spazio comico occupano anche l'ebreo Isacco, querulo e avaro (sebbene poi i suoi comportamenti smentiscano gli stereotipi antisemiti), e soprattutto il principe Athelstane, un improbabile 'unto da Dio', ben più interessato alla tavola imbandita che alla corona d'Inghilterra, un Falstaff abilmente delineato da Scott per mostrare l'improponibilità delle rivendicazioni dinastiche dei sudditi anglosassoni. Nello stesso tempo, il romanzo si arricchisce di citazioni poetiche e introduce una serie di ballate, a conferma di una qualità teatrale, in cui trova posto anche la rima e la musica, il recupero delle tradizioni care
all'estetica romantica, e una erudizione che consiste, in effetti, nella proposta di una nuova sensibilità letteraria. Anche la polemica sull'uso della lingua, messa in bocca - all'inizio del romanzo - al porcaio Gurth, secondo cui i termini che indicano gli animali vivi sono di origine sassone, mentre, quando gli stessi sono diventati gustosi manicheretti, si ricorre alla parola franco-normanna, corrisponde alla consapevolezza scottiana dell'importanza 'storica' - se si vuole, 'politica' - del linguaggio quotidiano, che è il fondamento dell'identità nazionale.
Una tale elaborata costruzione artistica non esclude affatto il senso profondo della Storia, che, in Ivanhoe, si realizza nella complessità dei livelli temporali e spaziali evocati dalla narrazione. Accanto al paese normanno e a quello sassone, infatti, è presente sul suolo inglese un'Europa che tocca la Francia (il paese d'origine dei conquistatori normanni, che usano ancora la lingua franca), la Spagna, dove troverà rifugio Rebecca, l'Italia (da Milano giunge l'armatura di Ivanhoe, ottenuta grazie all'intervento di Isacco), il nord dei Danesi e di altri popoli che avevano messo in discussione il dominio delle monarchie anglo-sassoni, succedute ai Celti e ai Romani. E non solo l'Europa partecipa dello scenario romanzesco, poiché in Inghilterra risiedono gli Ebrei, cittadini del mondo, vi tornano con un nuovo bagaglio di conoscenze i pellegrini crociati (tra cui Ivanhoe e lo stesso Re Riccardo), reduci delle guerre in Terra Santa, vi mettono piede perfino i mori musulmani al servizio di Bois-Guilbert. E' proprio questo personaggio a fantasticare di un regno personale in Oriente, in nome di una moralità e di una sete di dominio che sanciscono, se non la credibilità storica di una architettura politica, la violenza di un sogno di alterità e sovversione, di cui l'Inghilterra ottocentesca deve riconoscere la forza e il fascino, accettando il suo destino imperiale. Integrati Sassoni e Normanni, Scozzesi e Inglesi, il Regno Unito di Walter Scott parla non solo con la voce di Ivanhoe o di Re Riccardo, ma anche con quella di Isacco di York e di Bois-Guilbert.
Tuttavia Rebecca rimane nella mente di Ivanhoe come in quella dei lettori del romanzo: la forma, il corpo di un desiderio troppo potente per essere soddisfatto o contenuto nello happy ending, e tuttavia il segno incancellabile del potere sovversivo del romance, la sovrana misteriosa (proprio lei, di cui conosciamo subito il nome e l'identità) di un regno che solo le pagine di un romanzo hanno saputo evocare. Di fronte a questo ricordo, scolorisce l'immagine della felicità domestica che Ivanhoe e Rowena hanno comunque ottenuto a caro prezzo, e nello stesso tempo, per un altro verso, si dissolve la figura del cavaliere sassone, travolto dalla fine prematura del regno di Riccardo-Cuor-di-Leone, monarca valoroso, ma improvvido. Dopo di lui, tornerà sul trono Giovanni.
Scott aveva imparato da Shakespeare che i trionfi della Storia sono effimeri, fragili, deperibili, come le pagine di un romanzo d'avventura.
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