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I Romantici in Svizzera: Una notte buia e tempestosa

Percy Bysshe Shelley      |     Mary Shelley     |     John Polidori     |     Lord Byron

Oggigiorno è difficile pensare alla Svizzera come centro di turbolente attività artistiche. Molti ricordano il duro verdetto pronunciato da Harry Lime - personaggio interpretato da Orson Welles ne "Il terzo uomo" - che nominava l'orologio a cucù come migliore (se non unica) realizzazione artistica del paese.
Non fu però sempre così.
Due secoli fa, gli artisti bohemien più avventurosi si muovevano in massa verso mete quali il Lago di Ginevra al confine franco-svizzero, desiderosi di assaporare lo scenario mozzafiato del panorama montano e di godere del liberalismo politico del Continente.
Il gruppo più famoso giunse dall'Inghilterra nel maggio del 1816, guidato dal poeta-celebrità George Gordon, Lord Byron; ormai universalmente conosciuto come "folle, cattivo e pericoloso-da-conoscersi" a causa delle sue 'volgari' dissolutezze e delle operistiche relazioni con donne e uomini di cui fu protagonista, il poeta inglese più noto della seconda generazione dei Romantici era in fuga dal paese nativo, in seguito alla scandalosa separazione dalla moglie Anne Isabella Milbanke.


La sua ormai proverbiale stravaganza è facilmente rintracciabile se solo pensiamo che il mezzo su cui viaggiò per raggiungere la Svizzera fu una esatta replica della carrozza di Napoleone. A fare compagnia a Byron nel ricco cocchio vi erano uno stormo di domestici, il suo medico personale John Polidori - un giovane dottore tormentato, in cerca di un avvio sicuro alla carriera letteraria -,un pavone, una scimmia  e un cane. Il poeta e il suo seguito furono infine incontrati a Ginevra da un gruppo di 'vagabondi letterari', appoggiati dal 'poeta ribelle' Percy Bysshe Shelley, che all'età di soli 23 anni si era guadagnato una grande notorietà in Inghilterra per essere convinto sostenitore dell'ateismo e dell'amore libero. Con lui viaggiavano la giovane e brillante amante Mary Wollstonecraft Godwin (all'epoca appena diciottenne) con la quale si sarebbe unito in  matrimonio l'anno seguente, e la seducente sorellastra di lei, Claire Claremont, precedentemente amante di Byron e vera organizzatrice della vacanza, nata in vista di un possibile ricongiungimento con il poeta dannato di cui era ancora follemente innamorata.

È risaputo che Byron e Shelley andassero particolarmente d'accordo, tanto che i due decisero di affittare due case estive non troppo distanti l'una dall'altra, nel villaggio di Coligny, poco lontano da Ginevra. Byron scelse la lussuosa Villa Diodati [in foto] dove alloggiò insieme a Polidori e alla servitù, mentre Shelley, Mary e Claire si sistemarono nella più umile Maison Chapuis, sul lungolago.

In "Byron and the Romantics in Switzerland, 1816" la studiosa Elma Dangerfield definì la piccola cerchia di amici come "il circolo di poeti più brillante e romantico che la Svizzera -e l'Europa intera - abbia mai visto". Una tale affermazione potrebbe risultare ad alcuni leggermente  sovradimensionata, ma non vi è alcun dubbio sul fatto che si trattò di uno stupefacente e mai più ripetuto allineamento di talento.

Il gruppo passò molto tempo in barca o a cavallo in cerca di siti storici in cui sostare, ma quando non vi era possibilità di uscire per un'escursione, solo una cosa rimaneva da fare: scrivere. In effetti, l'estate del 1816 passò alla storia in quanto la potentissima eruzione vulcanica del Monte Tambora in Indonesia rilasciò nell'aria grandi quantità di cenere vulcanica, la quale oscurò il cielo in almeno metà dell'emisfero boreale, portando in Europa un clima tanto gelido da far sì che il 1816 fosse ribattezzato come "L'anno senza estate".

Fu così che la notte buia e tempestosa del 16 giugno, a Villa Diodati, ispirato dalla lettura di un vecchio volume di novelle fantastiche dal titolo "Fantasmagoria", tradotte dal tedesco al francese, Lord Byron lanciò una sfida letteraria a Shelley, in seguito allargata al resto dei presenti, ad eccezione, probabilmente, di Claremont: ciascun partecipante avrebbe dovuto scrivere un racconto fantastico da leggere e confrontare con gli altri nelle notti successive.
Il racconto scritto da Percy - che, come anni dopo spiegò Mary, fu ispirato alla vita passata del poeta stesso - fu presto abbandonato ed andò perduto, mentre quello di Byron - anch'esso accantonato ed incentrato sulla figura poco convenzionale di Augustus Darvell, un aristrocratico in punto di morte - fu pubblicato in annessione all'opera in versi "Mazeppa", nel 1819. 
Contro ogni pronostico, ad eccellere nella sfida furono invece i due scrittori non destinati inizialmente a partecipare; nonostante le difficoltà iniziali sperimentate da entrambi nel trovare un incipit adatto alla propria storia, quell'estate senza precedenti vide infatti la nascita di due grandi classici del Gotico: "Frankenstein, O il Moderno Prometeo"  di Mary Shelley, nato in seguito ad una conversazione sulla natura del principio della vita, e "Il Vampiro" ("The Vampyre") di John Polidori, che trasse ispirazione dal carattere anticonformista di Lord Byron e che avrebbe più tardi influenzato Bram Stoker nella stesura di "Dracula".

Lord Byron&Mary Shelley: il Prometeo Moderno
Il primo pensiero di molti quando Frankenstein viene nominato è l'immagine della Creatura nella trasposizione cinematografica del 1940, in cui Boris Karloff interpreta un mostro ricoperto di cicatrici; due bulloni che sporgono dal collo e le profonde ferite che incorniciano lo sguardo infossato.
Chi invece conosce il romanzo, ricorderà per certo che Frankenstein è in realtà il nome del creatore e non della creatura: Victor Frankenstein, lo scienziato. 
Effettivamente nel 1816, quando Mary Shelley cominciò a lavorare all'opera, non definì mai l'eroe del suo libro 'uno scienziato', in quanto il termine non fu coniato fino a circa due decenni dopo la pubblicazione del romanzo. Fu infatti l'erudito e scrittore inglese William Whenwell ad inventarlo nel 1833; fino a quel momento, gli uomini che si dilettavano nello studio della scienza si definivano 'filosofi naturali', impegnati nell'analisi o nella descrizione delle leggi naturali.
Victor Frankenstein sta dunque a rappresentare il mutato atteggiamento nei confronti 
della scienza agli inizi del XIX secolo. Nella storia di Mary Shelley, fino a quando non raggiunse gli studi universitari, Victor era estremamente affascinato dagli esperimenti classici portati avanti dagli alchimisti per cercare di mutare i metalli comuni in oro e scoprire l'elisir di lunga vita. Il suo professore di chimica, tuttavia, indirizza ben presto l'immaginazione di Frankenstein dal mondo classico all'universo del nuovo secolo, di gran lunga più affascinante, dove la scienza si occupa di aspetti più pragmatici e tangibili del quotidiano, ma non per questo meno pregni di magia. 
Mary riflette, attraverso le parole del professore, sul pensiero scientifico del tempo:

"Gli antichi maestri di questa scienza promisero l’impossibile e non giunsero a nulla. I moderni maestri promettono davvero poco; sanno che i metalli non possono essere trasmutati e che l’elisir di lunga vita è una chimera. Ma questi filosofi, le cui mani sembrano fatte solo per frugare nel fango, i cui occhi sembrano fissarsi solo sul microscopio, o sul crogiuolo, hanno compiuto miracoli."

Tali riflessioni non sono altro che il riverbero del giugno 1816 trascorso in compagnia di Byron a Villa Diodati. Quest'ultimo infatti compose, oltre al racconto fallimentare, due poesie prima che gli Shelley ripartissero alla volta dell'Inghilterra il 29 agosto dello stesso anno: "Prometeo" e "L'oscurità". Sebbene nessuna delle due opere in versi fa riferimento alla dottrina cristiana, quest'ultima è indirettamente messa in discussione insieme alla soteriologia—dottrina  della salvezza, in quanto liberazione dell'uomo dal male per mano di Cristo—tramite visioni di un mondo in cui (e da cui) non vi è possibilità di salvezza per agenti divini.
Proprio come per Mary Shelley - il cui romanzo presenta il sottotitolo "Moderno Prometeo" - Byron trasformò radicalmente il mito del Titano punito da Zeus per aver donato il fuoco all'uomo, privando così gli dèi di qualcosa che fino ad allora era stato di loro esclusiva proprietà. Sebbene Victor Frankenstein potrebbe rappresentare - come affermò la stessa Shelley all'introduzione al romanzo del 1831 - il "tentativo umano di prendersi gioco dello stupefacente meccanismo del Creatore nel mondo", egli non viene punito da Dio ma da sé stesso e dalle proprie azioni; in altre parole, la punizione non è descritta come conseguenza della trasgressione di fronte alla prerogativa divina, bensì come risultato della sua 'disubbidienza parziale'—non a caso, Victor si dirà inorridito 
di fronte all'aspetto deforme della sua stessa creazione. Nel "Prometeo" di Byron - composto in seguito alla traduzione a voce alta fatta da Percy Shelley del "Prometeo incatenato" di Eschilo - il dono del Titano agli uomini perde quasi completamente il suo senso trasgressivo a danno del divino, in quanto l'umanità già possiede, nella consapevolezza della sua mortalità, ciò che il nome stesso di Prometeo sta a significare in greco: preveggenza"Come te, l'Uomo è in parte divino, / Una corrente intorbidita sgorgante da una fonte pura"(vv. 46-7). Così Prometeo, il cui "delitto divino fu l'essere gentile"(v.34), non può fare altro che "rendere con i [suoi] precetti / la somma dell'umana infelicità minore", insegnandoci a soffrire con dignità, "della Morte facendo una Vittoria" (vv.36-7, 59).

Se il "Prometeo" è caratterizzato da un'atmosfera grigia e senza speranza, ancora più cupa risulta "L'oscurità" - in versi liberi, inusuale per Byron - la quale ci offre una visione post-apocalittica del mondo:

Il sole radioso si era spento, e le stelle
vagavano oscurandosi nello spazio eterno,
disperse e prive di raggi, e la terra coperta di ghiacci
in tenebre ruotava cieca nell'aria senza luce;
il mattino venne e svanì, ritornò senza portare il giorno,
e nel terrore di questa desolazione [...]  (vv. 2-8)


Dunque, sebbene Mary Shelley trovò ispirazione nel sonno (su cui si fonda gran parte del pensiero romantico europeo), ad influenzare simili suggestioni fu proprio la figura di Lord Byron e una conversazione da lui iniziata sulla teoria elaborata da Erasmus Darwin - nonno di Charles e frequente ospite della casa paterna di Mary - riguardante la vita di alcuni protozoi d'acqua che sopravvivevano per mesi all'asciutto; Erasmus aveva effettuato esperimenti con l'intento di rianimare la materia inorganica.
Altro contributo venne dalla teoria elaborata da Luigi Galvani sull'elettricità animale: lo scienziato italiano studiò le contrazioni involontarie che subivano i muscoli dei cadaveri delle rane sottoposte a scariche elettriche, concludendo che gli esseri viventi disponessero di una forza elettrica originata dal cervello.
La cerchia di amici paterni includeva tra l'altro chimici e pionieri dello studio dell'energia elettrica, come Humphry Davy e William Nicholson. Il nipote di Galvani, Giovanni Aldini, contemporaneo di Mary, prosegue gli studi dello zio elaborando tecniche di resuscitazione tramite l'elettricità—Tuttavia non è chiaro tramite quale mezzo il 'Mostro' di Frankenstein viene rianimato, in quanto Shelley (diversamente dall'immaginario comune) non descrisse mai esplicitamente la natura della linfa vitale utilizzata dal creatore.
In ogni caso Mary assorbe l'acceso dibattito scientifico del suo tempo, caratterizzato, inoltre, dagli effetti della Rivoluzione Industriale e dalle modifiche che la macchina apporta alla società, con la possibilità di ipotizzare un futuro innovativo ma, allo stesso tempo, portatore di pericoli.

Differentemente da Byron, invece, la Shelley riprende il tema mitologico del Prometeo non tanto per arrivare a porre sullo stesso piano i sentimenti dell'uomo reale e quelli del personaggio del mito greco, bensì per evidenziare l'aspirazione umana a superare i limiti imposti dalla natura e ricercare il segreto della vita, realizzando una quasi fallimentare ambizione di dominio e immortalità.
Tutti conoscono le numerose rappresentazioni cinematografiche del romanzo in cui un medico trafuga un cadavere e, grazie a conoscenze chimiche e anatomiche, impianta ad esso un cervello, restituendolo alla vita per mezzo di una macchina, da lui inventata, che utilizza l'elettricità del fulmine.
Nel libro si dà invece libero sfogo a riflessioni ben più profonde: la creatura si rivela un essere mite che, di fronte alle reazioni di ribrezzo che la sua fisicità provoca nel genere umano, modifica la sua natura gentile trasformandosi in un assassino, ma pur sempre mantenendo l'attenzione e il pieno appoggio del lettore su di sé, mentre è l'uomo ad assumere - a causa del suo indistruttibile pregiudizio - caratteristiche sempre più sovrannaturali e rivoltanti. Dunque il mostro esprime rabbia non appena comprende di non poter essere accettato per quel che è; paura, di fronte alla realtà di essere osservato con disprezzo dagli altri; amarezza, per l'incapacità dell'uomo di superare l'apparenza e raggiungere la profondità dell'anima.  È così che la consapevolezza di non poter trovare nessuno con cui condividere pensieri e doti interiori scatenerà il lato oscuro e la furia omicida.

Byron&Polidori: il Vampiro Moderno
La fatidica notte del 16 giugno non vide soltanto la nascita del primo vero esempio di 'scientific fiction'. A fare la sua comparsa sulla scena letteraria del Romanticismo Gotico fu infatti una nuova figura - il vampiro - anch'essa una creazione ispirata al personaggio di Lord Byron e portata in vita dal suo medico John Polidori. Sebbene la figura del vampiro fosse già presente in svariate versioni nei racconti di folklore di tutto il mondo, mai prima d'allora questa fu tanto umanizzata.
Un vampiro è un essere assetato, pronto a diffondere antigeni nel sangue delle sue vittime. Si tratta di un tema diffuso, che si parli degli atti migratori e del cambiamento industriale affrontato in "Dracula", di questioni di genere, come in "Carmilla", racconto del 1872 di Sheridan Le Fanu, o ancora dell'esplorazione sessuale adolescenziale tratta nella saga di "Twilight"
Al di là della natura di non-morto e alla capacità di assumere molteplici forme - pipistrello, lupo e persino nebbia evanescente - il vero potere di cui il vampiro è padrone è il controllo delle passioni più nascoste dell'animo umano, così come delle ansie che intaccano i meandri della psiche, attraverso cui risulta facile tenere le redini delle relazioni sociali, inducendo così a claustrofobiche paranoie e congetture sul loro vero significato.

Tale abilità è senza dubbio descritta nella prima storia di vampiri realmente riuscita della letteratura inglese: "The Vampyre"("Il Vampiro") di John William Polidori [immagine]È infatti il racconto di Polidori a presentare per la prima volta il vampiro come reinterpretazione delle 
creature ferali presenti nelle leggende dell'Europa sudorientale.
Come "Frankenstein" anche "The Vampyre" trae molto dallo spirito di Byron e dalla sua presenza a Villa Diodati. Tuttavia, al contrario di Mary - che incorporò le orchestrali tempeste che sfiancarono il lago e il sublime circondario montano per fornire uno sfondo naturale alle battaglie interiori di Victor Frankenstein - il testo di Polidori si intreccia nelle dinamiche 'invisibili' ed intellettuali del circolo di poeti capeggiato da Byron e Shelley, così come le continue umiliazioni subite per colpa del datore di lavoro (Byron), il quale ridicolizzava costantemente le aspirazioni letterarie del giovane dottore.
John Polidori, maturato precocemente in una casa di letterati poliglotti, fu mandato al Catholic Ampleforth College all'età di otto anni, dove eccelse ben presto nello studio della storia, delle lingue e soprattutto del significato più profondo della devozione cattolica. Posto di fronte ad un ambiente tanto opprimente e costrittivo, non c'è quindi da stupirsi se John sognava di accedere al sacerdozio. Suo padre, però, aveva già scelto una strada diversa su cui far avviare la carriera del figlio; fu così che il quindicenne John fu mandato in Scozia a studiare medicina all'Università di Edimburgo.
L'istruzione medica della prima metà dell'Ottocento si fondava sullo studio degli 'antiflogistici' - ossia una preparazione volta ad imparare il corretto impiego delle sostanze antinfiammatorie per l'espulsione dal corpo di sostanze nocive - e Polidori divenne ben presto uno scienziato preparato sul funzionamento del flusso sanguigno. Ciononostante, il giovane medico odiava il campo in cui fu costretto a specializzarsi. Ragazzo solitario ed irrequieto, rifiutò di condividere la propria persona con gli 'automi' che considerava essere i suoi compagni di studi, la cui totale passività contrastava con la sua animata ricerca di una via verso la gloria, in primo luogo sul campo di battaglia, combattendo per le truppe italiane contro l'invasione di Napoleone, e più tardi con il suo graduale - ed infine quasi ossessivo - attaccamento alle lettere. 

Di fronte al successo raggiunto da Byron [immagine] grazie alla pubblicazione di "Childe Harold" (1812), è naturale che i giovani uomini dell'Ottocento cominciassero a concepire la poesia non solo come uno sfogo creativo, ma soprattutto come un possibile accesso alla fama, alla ricchezza e alla libertà sessuale.
Diventato il protetto di William Taylor di Norwich, un saggista all'epoca molto noto, attratto dalla bellezza acerba di John, Polidori fu finalmente in grado di cimentarsi nella composizione letteraria. Suo padre, preoccupato invece del più probabile fallimento di una carriera letteraria, gli ordinò di continuare gli studi. John obbedì, dando avvio ad una 
dinamica familiare rimasta immutata per tutta la sua vita – piegarsi ai desideri del padre e cavillare in segreto sulle restrizioni che questi implicavano.
Mentre la maggior parte degli studenti formulò tesi sulla circolazione del sangue o sulla guarigione delle infiammazioni cardiache, John terminò gli studi con una tesi sul misterioso fenomeno del sonnambulismo - influenzato dalle ricerche degli enciclopedisti francesi - per poi entrare a soli vent'anni nella frenetica società londinese. Purtroppo, però, per praticare la professione di medico nella capitale era necessario avere almeno ventisei anni. Fu proprio durante questa angosciante attesa che a John fu offerto di divenire il medico privato di Lord Byron. Il padre di Polidori, precedentemente segretario del vanesio e splenico attore tragico Vittorio Alfieri, gli ordinò di non accettare il posto, mentre, dall'altra parte della città, l'amico di Byron John Cam Hobhouse suggeriva al poeta di non assumere il "giovane strano ragazzo dal nome buffo". Nessun avvertimento fu sufficiente: Byron e Polidori partirono insieme per il Continente nel giorno di San Giorgio del 1816.
La loro conoscenza non si aprì nel migliore dei modi. In attesa di una marea favorevole all'attraversamento dello stretto, i due sostarono a Dover. Durante una cena, John chiese a Byron di leggere un'opera teatrale da lui scritta, in cerca del parere di un autore già affermato. Byron accettò, ma solo a patto di poter leggere il testo in compagnia di alcuni amici invitati a passare con loro i giorni d'attesa, con i quali, tuttavia, rise soltanto delle "inutili fatiche" di Polidori.
Polidori, un dipendente fuori luogo al servizio di un poeta già celebre, fu costretto a rimanere seduto e in silenzio ad ascoltare Byron e i suoi compagni scoppiare in fragranti risate, finché, furioso, poté solo uscire di casa e vagabondare per le strade di Dover.

Lontano dagli amici di Byron le cose migliorarono leggermente, come scrisse John a sua sorella che si trovava a Bruxelles: "Mi trovo rispetto a lui [Byron] su un piede di parità". L'idillio democratico non ebbe però lunga vita, in quanto Byron perse ben presto la pazienza di fronte alle lamentele per il mal di mare di John, mentre quest'ultimo risentiva dell'arroganza scorretta del suo datore di lavoro. 
"Scusate, cosa vi è d'altro oltre allo scrivere che sapete fare meglio di me?" Polidori chiese a Byron durante una pausa dal viaggio, trascorsa in una locanda sul Reno. Byron rispose, tranquillo, con tre fatti: "Innanzitutto", disse, "Sarei in grado di prendere con un solo colpo di pistola lo spioncino di quella porta – Poi, potrei nuotare attraverso il fiume fino a quel punto laggiù – ed infine, potrei darti una dannata bastonata!"

Il risentimento non faceva che crescere in quanto John si sentiva sempre più eclissato in presenza del celebre poeta quando, in compagnia, chiunque gravitava intorno alla celebrità mentre il medico rimaneva in disparte "come una stella nell'alone luminoso della luna–invisibile."
Allo stesso tempo la loquacità forzata di Polidori provocava Byron, il cui umorismo risultava spesso tagliente e raramente lasciava passare un'opportunità per prendersi gioco del suo dipendente o ricordargli quale fosse il suo posto.
Con il tempo, John iniziò a sentire di star perdendo coscienza di sé stesso accanto all'accecante ego del poeta. Cercò così di prendere le distanze e alla metà di giugno, ormai psicologicamente devastato, tentò persino il suicidio.

Non si fa fatica a credere che Polidori cominciò a vedere Byron come un mostro intento a 'succhiargli' via la vita, proprio come altri lo accusarono di essere in possesso di poteri carismatici con cui adombrava le identità altrui.
Amelia Opie, una delle tante donne che il seducente poeta aveva conquistato, lo descrisse come un essere dotato di "una voce simile a quella del diavolo quando tentò Eva; [temeva] il suo fascino al solo sentirne parlare"; possedeva una qualità fuori dal comune che i critici trovarono anche nei suoi versi, i quali possedevano, secondo Thomas Jones de Powis, "la capacità di... trascinare le menti dei suoi lettori in uno stato di immediato vassallaggio o assoggettamento rispetto alla sua persona".

Il più esplicito esempio di Byron nelle vesti di demone divoratore di anime fu un romanzo che John lesse durante l'estate – "Glenarvon" di Lady Caroline Lamb. Byron e la Lamb erano stati protagonisti di una relazione breve e trasgressiva durata fino a quando lui, stanco della vivida ed insaziabile immaginazione erotica di lei, decise di rompere. Il romanzo è un ritratto poco velato del loro rapporto, sullo sfondo di un castello isolato durante la Rivolta Irlandese del 1798, in cui affannati elementi gotici si intrecciano alla trama dell'amore traviato della bella Calantha per il ribelle irlandese Lord Glenarvon. Glenarvon si configura dunque come un antieroe dell'orrore che arriva a travestirsi da monaco, profanando chiese e ululando alla luna come fosse un lupo; il volto gli si illumina "come se l'anima della passione fosse stata calpestata e in seguito stampata sui tratti dei suoi lineamenti", esercitando sulla donna il potere della fascinazione e sussurrandole 
all'orecchio "Il mio amore è morte."
Che Polidori abbia preso ispirazione dalla Lamb [immagine] è comprensibile dal fatto che il dottore abbia dato e al suo antieroe il nome di Lord Ruthven, uno dei tanti titoli posseduti da Glenarvon. Il Ruthven di Polidori è un gentiluomo affascinante e molto pallido che a Londra non passa inosservato a causa delle sue "peculiarità più che notevoli, piuttosto che per il rango di appartenenza" e che suscita meraviglia agli occhi delle signore più conosciute dell'alta società grazie alla sua aria melanconica e alla "reputazione di sapiente oratore".

In "The Vampyre", Ruthven conosce un giovane gentiluomo di nome Aubrey, che invita ad unirsi a lui per un viaggio in Grecia. Una volta giunti a destinazione, Aubrey si innamora follemente di Ianthe, una bellissima contadina che gli racconta la 'leggenda del vampiro' per poi essere brutalmente massacrata in circostanze misteriose. Aubrey comincia a sospettare di Ruthven, ma la verità verrà svelata con grande difficoltà...

Anche solo conoscendo il contesto in cui la storia di Polidori fu concepita, risulta impossibile non leggere in "The Vampyre" un'allegoria del travagliato rapporto dello scrittore con Byron — Un testo sigillato con la risata denigratoria di un uomo in possesso di tutti i mezzi esistenti per debilitare il prossimo con la sola forza della personalità. 
Tra l'altro, il racconto segue le tappe della nota storia di Byron dalla pubblicazione di "Childe Harold", da quando, giovane nobile, si diresse in terra straniera e tornò sicuro delle proprie capacità, le quali gli hanno garantito sì eterna fama, ma anche una nomina poco favorevole che arriva instancabile fino a noi.

Ciononostante, piuttosto che rafforzare la creatività di Polidori, la pubblicazione di "The Vampyre" servì solamente ad inasprire la sua umiliazione. Sebbene infatti il racconto fu il diretto risultato della stessa competizione che ispirò Mary Shelley tanto abilmente, John completò la sua storia solo per far piacere ad un amico esterno al circolo Byron-Shelley. Il manoscritto fu poi accantonato per tre anni fino a quando giunse nelle mani del giornalista e malfattore Henry Colburn che lo fece pubblicare nel New Monthly Magazine sotto il titolo "Il Vampiro: un racconto scritto da Lord Byron".
L'opera fu accolta con animazione, forse a causa del nome sotto cui fu pubblicato. 
Goethe la definì il lavoro più riuscito di Byron e numerose furono le ristampe anche in preziose edizioni, mentre Polidori si impegnava, ormai disperato, per l'acquisizione dei diritti, noncurante ma pur sempre colpito dalle continue accuse di plagio e di ingiustificata diffamazione ai danni di Byron. John tentò di riassumere il controllo preparando una propria edizione, ma il pubblico non si disse interessato, cosicché, disgustato dall'universo letterario del tempo, cercò di rientrare ad Ampleforth ed intraprendere finalmente la carriera ecclesiastica . Eppure anche qui il ricordo di "The Vampyre" lo perseguitò: la sua richiesta fu infatti respinta a causa di "certe pubblicazioni di cui ho sentito parlare" scrisse il Priore, "e di cui devo dirvi, da amico, preferirei non foste stato l'autore." Polidori si iscrisse così alla facoltà di legge usando il nome da nubile di sua madre ma, non trovandovi conforto, si diede ben presto al gioco d'azzardo. Con l'ombra di Byron che rendeva ogni sua azione insensata e misera, e il peso del rifiuto che pesava sul suo già fragile ego, John Polidori la fece finita all'età di soli venticinque anni, con un pugno di cianuro.

"Povero Polidori", scrisse Byron all'indomani della morte di John, "sembra che la delusione fu la causa di questo atto impulsivo. Aveva nutrito speranze fin troppo accese per una carriera letteraria impossibile da raggiungere".

Lord Byron è dunque al centro di due delle opere più rivoluzionarie di sempre, così come lo fu la Svizzera stessa. I poeti della cerchia si dissero estasiati e del tutto sopraffatti dalla vertiginosa altezza delle cime e dal gelido fluire di torrenti e cascate; dal rumore sordo delle valanghe in lontananza e dai quasi sovrannaturali ghiacciai, rumorosamente silenziosi ed immutabili nella loro forma. Uno di questi, scrisse Byron, "ricordava un tornado congelato nel tempo".

Non potremo mai sapere con certezza se lo scandalo stagnò davvero all'ombra di Villa Diodati, ma la disinibita espressione letteraria delle sensazioni provate da questi autori e per sempre immortalate sulla carta restano ancora oggi materiale di un valore inestimabile.

Gli Shelley tornarono a Londra verso la fine dell'estate del 1816, soprattutto a causa della gravidanza di Claremont, risultata dalla relazione dopotutto ripresa con Byron. 
Nel giro di sette anni sia Shelley che Byron erano morti giovani. Di quelle intense vacanze svizzere parlò Mary nell'introduzione all'edizione del 1831 di "Frankenstein":

"E ora, una volta di più, licenzio la mia mostruosa progenie [il romanzo] perché segua la 
sua strada e prosperi. Nutro un affetto particolare per essa, nata nei giorni felici della mia 
primavera, quando morte e dolore non erano per me che parole, suoni privi di echi 
interiori. Le sue molte pagine mi parlano di numerose passeggiate, gite in carrozza,
conversazioni appartenenti a un tempo in cui non ero sola e il mio compagno non era 
qualcuno che non incontrerò più su questa terra."

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